Bruno Ballerin Capitolo primo: “Considerazioni sulla filosofia e sul pensiero filosofico” Il padre della psicoanalisi quando ravvisava nel tardo clima positivistico la necessità di ironizzare sulla filosofia e, per logica conseguenza, accreditare come scientifico il proprio metodo usato nell’ambito della ricerca psicoanalitica, ricorreva ai versi del poeta tedesco Heine: “Con le sue pezze e le sue toppe, [il filosofo] tura le lacune nella struttura dell’universo”. Non ci sentiamo di fargliene una colpa, sia perché riteniamo d’aver compreso come l’escamotage in quella temperie fosse utile ai fini della sua battaglia, sia perché sappiamo quanto il Freud giovane fosse attratto dalla filosofia. Di ironizzare sulla metafisica per le inconsistenti e pretestuose argomentazioni aveva sentito la necessità anche Kant, filosofo per eccellenza, laddove si soffermava a considerare come ogni filosofo quando scende in lizza butta di sella con facilità l’avversario, ma ne è buttato a sua volta, appena deve subirne l’assalto. In modo niente affatto diverso si esprimeva C. Cattaneo in una “bella pagina” scelta per noi da Gaetano Salvemini: “... le scòle metafisiche non solo disdegnano come fango ogni cosa che appartenga al dominio delle scienze ch’esse chiamano empiriche e casuali; ma al santuario stesso della metafisica, l’ontologia guarda con disprezzo la psicologia. E codeste discipline inspirano ai loro cultori sì selvaggia superbia, che ogni intelletto il quale appena si levi con qualche potenza, inaugura le sue dottrine col distruggere le dottrine altrui e gettare sempre di nuovo quella ch’egli decretò prima pietra di tutto l’edificio”. La tendenza a screditare la filosofia è soprattutto degli uomini di scienza, così diffusa da rendere banale qualsiasi spigolatura; in proposito risulta interessante la meno nota considerazione di Engels: “Gli scienziati credono di liberarsi dalla filosofia ignorandola. Ma poiché senza pensiero non vanno avanti e per pensare hanno bisogno di determinazioni di pensiero, accolgono inconsapevolmente queste categorie dal senso comune delle cosiddette persone colte, dominate dai residui di una filosofia da grande tempo tramontata, o da quel po’ di filosofia che hanno obbligatoriamente ascoltato all’università [...] o dalla lettura acritica e asistematica di scritti filosofici di ogni specie, non sono meno schiavi della filosofia ma lo sono il più delle volte purtroppo della peggiore; e quelli che insultano di più la filosofia sono schiavi proprio dei peggiori residui volgarizzati della peggiore filosofia...”. Questa avversione diffusa, questa guerra su più fronti, ci sembra molto ben rappresentato dalla seguente considerazione di Bertrand Russell: “Fra la teologia e la scienza vi è una terra di nessuno, esposta agli attacchi di entrambe le parti; questa terra di nessuno è la filosofia”. Non è nostra intenzione come abbiamo già annunciato continuare nella rassegna ma solo introdurre l’argomento e cogliere l’occasione per manifestare fin dall’inizio una scoperta affezione per il pensiero filosofico e in generale per quella che nell’antichità veniva considerata “scientia scientiarum”, o anche "filosofia prima”, che tuttavia nel contesto - per la peculiarità insita nella filosofia intesa come sintesi delle scienze - non ha molto a che vedere con la metafisica classica. E’ bene precisare a questo punto come ogni asserzione relativa al pensiero filosofico sarà nel presente lavoro riferita e limitata alle tre domande fondamentali accennate in precedenza; domande che vale la pena di riassumere nei modi più o meno ricorrenti in diversi autori: “che cos’è l’uomo” (e il mondo che lo circonda), “da dove viene” e “qual è il suo divenire”. Neppure l’autore nasconde l’altra convinzione che la filosofia, intesa come sopra, non sia resa vana dal montare degli eventi scientifici ma, anzi, sia più che mai necessaria come guida laica dell’agire umano, contrapposta ai rinascenti o forse mai sopiti fanatismi “religiosi”. Per ora si può anticipare per rendere più chiaro il pensiero espresso che voler passare dalla teologia alla scienza sorvolando quella che Russell definiva la “terra di nessuno”, è un salto che può riuscire al pensiero ma non all’uomo appesantito dal suo carico di sentimenti e paure... si tratta di un’altra “illusione” forse non meno perniciosa della prima: finché l’uomo avrà un bisogno assoluto di rimuovere l’idea della morte dovrà sempre ricorrere ad un supporto metafisico; la scienza sul piano morale può servire solo da viatico per passare da una fede dogmatica ad una visione laica e consapevole dell’esistenza. Si tratterà dunque di una Weltanschauung dai connotati attuali e, come si è detto, metamorfizzata nel pensiero scientifico contemporaneo. Il biologo T. Dobzhansky giustifica questo assunto, ne Le domande supreme della biologia, col fatto che “l’uomo è spinto dalla sua natura a porsi le grandi domande”, concetto che ripropone in fondo quanto Aristotele aveva affermato in apertura della Metafisica. Un’intuizione così universale che non merita il florilegio di citazioni; sarà sufficiente accostare due versioni del concetto che possiamo considerare agli antipodi in senso culturale ma anche geografico: quella di un pensatore come Ludovico Geymonat profondamente europeo per la sintesi filosofico-scientifica compiuta, “Lo si voglia o no ammettere, è certo che il rifiuto aprioristico di dibattere con strumenti razionali il problema di una concezione del mondo non elimina la necessità di risolverlo”; e l’altra, attribuita ad uno degli ultimi e carismatici capi di una tribù indiana della mitica “frontiera” nord americana dal suggestivo nome di Cavallo pazzo, “una grande visione è necessaria, e l’uomo che la possiede deve seguirla come l’aquila segue il più profondo blu del cielo”. A queste ne aggiungiamo solo un’altra di Friedrich Nietzsche per l’indubbia originalità: “L’uomo è divenuto gradatamente un fantastico animale che deve assolvere ad una condizione di esistenza in più rispetto ad ogni altro animale: di quando in quando l’uomo deve ritenere di sapere perché esiste, la sua specie non può prosperare senza una periodica fiducia nella vita!”. D’altronde, se così non fosse, per quale ragione uomini di scienza come E. Schrödinger (Che cos’è la vita ), G. G. Simpson (Evoluzione, una visione del mondo) e, appunto, T. Dobzhansky (Le domande supreme della biologia), solo per citarne alcuni, si sarebbero sentiti in dovere di scrivere simili trattati - definibili tranquillamente filosofici - che al di là di un possibile successo editoriale mettevano a rischio la loro credibilità scientifica? Tornando a Dobzhansky, nello stesso saggio egli inserisce un’altra affermazione che per il nostro discorso risulta di particolare interesse: “lo scienziato deve almeno essere annoverato fra i fornitori di materia prima con la quale operano i filosofi nel formulare e risolvere i loro problemi”. Cerchiamo di approfondire il contenuto di questa affermazione accentuandone l’aspetto metaforico: a produrre dunque i contenuti empirici debbono essere gli scienziati mentre il filosofo li userà infine allo stesso modo con cui l’architetto utilizza i materiali per la sua fabbrica; i mattoni e la calce da una parte, le travi e le colonne dall’altra, sono indispensabili per costruire un edificio ma è il progetto che determina la loro scelta e la loro collocazione; estremizzando ancora la metafora si arriva alla inevitabile conclusione che chi produce il materiale laterizio possa anche essere all’oscuro del fabbricato in costruzione. A questo punto appare utile una distinzione, e cioè che chi produce la calce e i mattoni (semplici informazioni) può anche non conoscere l’edificio che si sta realizzando, ma chi invece modella le travi e le colonne (teorie) - le cui dimensioni dipendono dalla struttura in cui dovranno essere inserite - deve farlo in coerenza al progetto, il che sottintende come ad un certo livello della ricerca è necessario che ad orientarla sia il pensiero filosofico, diversamente non sarebbe possibile portare a compimento l’opera secondo un organico e funzionale disegno (Weltanschauung). In altri termini, e senza far ricorso a metafore, se l’autore dovesse definire in estrema sintesi la differenza che passa tra la filosofia e la scienza, o meglio fra l’atto del filosofo e quello dello scienziato, affermerebbe che mentre la filosofia formula le domande la scienza deve cercare le risposte - il che non è molto diverso dall’asserzione di Dobzhansky - ma aggiungerebbe subito, per non avvilire inutilmente il ruolo dello scienziato, che l’atto del pensare filosofico e quello dell’operare scientifico possono essere espressi da una medesima mente, nel senso che il “filosofo” e lo “scienziato” non debbono essere intesi come due persone diverse e magari in conflitto ma come due diversi modi di pensare, di porsi in relazione ai problemi e alla ricerca. Questa formulazione riteniamo debba essere accettata, anche se solo in teoria le due attività del pensiero potrebbero essere svolte dalla stessa persona; nella realtà in effetti, dato che nell’un caso occorre affinare una forte capacità razionale di tipo analitico (penetrazione del problema intesa come conoscenza profonda e specifica) mentre nel secondo una qualità mentale inconscia e intuitiva - intesa come associazione prima e sintesi poi di più conoscenze - sono di fatto necessarie due diverse formae mentis o, meglio, due diversi programmi psichici. Non è solo un’idea nostra. Ad esempio, Andrè Lwoff - che negli anni “40-50” è direttore all’Institut Pasteur e nel 1965 sarà insignito del premio Nobel per la medicina e la fisiologia - in un articolo su “Scientific American”, a proposito del modo in cui è stata scoperta la struttura del DNA, scrive: “Jim [ James D. Watson ] ha due doti preziose: l’attitudine a formulare l’attacco a un problema importante e a risolverlo; il potere di astrazione dal mondo esterno, il potere di sognare il problema. Intuizione e logica sono raramente ambedue presenti nella stessa persona a un livello così alto”. Per chi ha avuto per certi aspetti il piacere, e per altri la pazienza, di leggere il “romanzo-saggio” di Watson si sarà reso conto che da parte dell’autore (“La scienza raramente procede col metodo rigorosamente logico che i profani immaginano”, e “la verità, una volta scoperta, sarebbe stata semplice oltreché bella”) c’è quasi un’apologia per quella che noi abbiamo definito intuizione filosofica, senza la quale forse non si sarebbe arrivati alla scoperta della struttura a “doppia elica”; chi invece si attenne rigorosamente al metodo sperimentale (nel senso della hypotheses non fingo), come Rosalind Franklin, ne esce alla fine quasi ridicolizzato. In altri termini e senza alcuna pretesa dimostrativa, sotto l’aspetto diciamo così cibernetico nel modo in cui l’intende Jacques Monod, il “pensare da filosofi” implica l’attivazione di un programma psichico che sembra richiedere un lungo esercizio, oltreché forse una predisposizione di tipo ereditario. Si tratterebbe in pratica di avere - in antitesi alla specializzazione - la massima apertura mentale sul massimo ventaglio di conoscenza. Sempre con intenti puramente esplicativi, si potrebbe quindi ipotizzare l’esistenza nel cervello di una quasi assoluta libertà di interconnessione tra neuroni come condizione necessaria per arrivare ad autentici salti di qualità nella valutazione di un problema (più o meno quello che Lwoff intende con “sognare il problema”). Naturalmente, affinché questa libertà di associazione sinaptica si traduca in una fertile produzione di pensiero (parte intuitiva), occorre che nella mente, o meglio nei depositi mnestici, siano state accumulate molte informazioni, ma soprattutto con metodo. Quest’ultima precisazione ci sembra già riconoscibile in Eraclito, almeno per quel che consente l’avarizia dei frammenti pervenuti, laddove egli afferma prima “la necessità che coloro che amano la sapienza [ i filosofi ] siano certamente esperti di molte cose”, per poi aggiungere che “sapere molte cose non insegna ad avere intelligenza”. Lontana è da noi la presunzione di chiarire il pensiero di colui che fu definito “l’oscuro”; ci limiteremo a ribadire la nostra convinzione che lo spettro della conoscenza in un filosofo deve avere una banda molto ampia e anche l’opportunità che egli, senza essere superficiale, non pecchi di “specialismo” in alcuna disciplina. In proposito, ci sovviene la più limpida ed esaustiva considerazione di Ortega y Gasset: “La specializzazione comincia, precisamente, in un tempo in cui si chiama uomo civile l’uomo enciclopedico. Il secolo XIX inizia il suo destino sotto la direzione di creature che vivono in un’atmosfera enciclopedica, anche se la loro produzione riveste già un carattere di specializzazione. Nella generazione successiva, l’equazione si è spostata, e la specialità comincia a scalzare nell’intimo di ciascun uomo di scienza la cultura integrale; quando nel 1890 una terza generazione assume la guida intellettuale dell’Europa c’incontriamo con un tipo di scienziato senza esempio nella storia. E’ un uomo che, di tutto ciò che occorre sapere per essere un personaggio intelligente, conosce soltanto una scienza determinata, e anche di questa scienza conosce bene soltanto una piccola parte di cui egli è investigatore attivo. Arriva a proclamare come una virtù questa sua carenza d’informazione per quanto rimane fuori dall’angusto paesaggio che coltiva particolarmente, e chiama dilettantismo la curiosità per l’insieme del sapere.” Una presa di posizione certamente un po’ radicale. Con parole nostre e magari con l’intendimento di trovare una via di compromesso, possiamo dire, se ci è consentito l’uso di un’altra metafora, che il filosofo deve approfondire la conoscenza di una singola disciplina così come saggerebbe col piede il fondale di una palude: senza cioè affondarlo troppo per evitare di rimanere intrappolato. In questi termini però il concetto può indurre in errore, lasciando credere che il pensiero filosofico possa essere semplicemente erudito. Dovremo quindi tornare sull’argomento per precisare come in realtà fra la conoscenza superficiale (il solo piede) e l’eccessiva specializzazione (fino al ginocchio) esiste una misura intermedia di approfondimento dei problemi, un’ulteriore versione del nostro paradigma che potremmo riassumere con la definizione di “filosofia come sintesi delle sintesi”, di cui comunque si avrà modo di parlare in seguito; intanto è bene sottolineare che la scelta di non affondare troppo nel particolare consente anche al pensare filosofico di astrarre dal caso in sé. Questo diverso modo
di rapportarsi al problema può essere anche esemplificato dal
seguente concetto: ammesso che la questione sia quella - molto
dibattuta nel Sei-Settecento - di dimostrare se gli animali siano
intelligenti o semplicemente istintivi, lo scienziato insisterà a
ragione con esperimenti mirati e sempre più raffinati fino alla
dimostrazione dell’assunto (ovviamente in positivo o in negativo).
Il filosofo invece staccandosi ogni tanto dal fenomeno può
riflettere e magari, quasi deambulans per pomerium - come
avrebbe detto il De Carpanis -, chiedersi il motivo per il quale,
nel caso in argomento, la sola ipotesi che l’animale sia un essere
intelligente risulti così fastidiosa all’uomo... sarebbe come si
evince un salto di qualità nella domanda, anziché un accanimento
nella risposta; e certamente un nuovo sentiero aperto alla ricerca. Cesenatico, maggio 2002
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